Il silenzio

“Un bel tacer mai scritto fu”

(Iacopo Badoer, libretto de “Il ritorno d’Ulisse in patria”, opera di Claudio Monteverdi)

Il verso richiama la saggezza del saper tacere al momento opportuno.

Nell’immagine di richiamo di questo articolo c’è una frase tratta dal diario di appunti di Leopardi, che come noto è un contenitore di pensieri vari (uno “zibaldone” appunto, parola onomatopeica che ricorda proprio lo zabaione).

Il silenzio come linguaggio, un concetto chiaro espresso con largo ed ampio anticipo rispetto al pedante primo assioma della comunicazione di Paolo Alto “E’ impossibile non comunicare”. Troppo spesso si guarda agli autori americani, dimenticando la nostra arte e letteratura.

Ma senza addentrami nell’Infinito leopardiano, c’è il rischio che il silenzio sia pesante emotivamente: “Io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura”.

Il silenzio è totalmente pregno di ambiguità, denso come può essere di concetti che è meglio trattenere, o di un nulla che si finge saggezza; di una meditazione profonda o di una superficiale pochezza. Oppure è mancanza di parole adatte, per quanto il vocabolario fornisca mattoni sufficienti a strutturare pressoché qualsiasi pensiero.

Con la parola si struttura il racconto, ed è la narrazione degli eventi che ne costruisce il significato, molto più degli eventi stessi. Come quando facciamo storytelling ed evochiamo significati ed emozioni. Sia la parola sia la sua ombra silenziosa influenzano i nostri neuroni e in particolare l’attività della dopamina, che come noto influenza il tono dell’umore.

La parola e la sua ombra sono entrambe pesantissime: come in una sonata di Beethoven la nota e la pausa, come in un quadro di Caravaggio la luce e l’ombra.

Il silenzio può essere moralistico (E’ meglio stare zitti) e in alcuni contesti la disciplina prevede proprio la censura sullo scambio verbale.

Il silenzio è per definizione l’antidoto della loquacità frivola.

Il silenzio si dice che equivalga al consenso.

Il silenzio è una disciplina utile di fronte a proprie mancanze.

Il silenzio placa l’ira mettendo a freno le parole.

Il silenzio è in qualche modo difficile, specie nell’epoca del frastuono. Esso appare come un vuoto, qualcosa che bisogna riempire, mentre esso può essere pregno di significati.

Il silenzio significa anche lasciarsi qualcosa alle spalle.

Il silenzio ha un proprio suono, come nella celebre canzone di Simon & Garfunkel. Un suono nel quale persiste una visione, che contiene flash di luce, che cresce come una malattia, che fa eco ad altri suoni, che sussurra ispirazioni.

Il silenzio occulta la diagnosi, protegge dall’angoscia.

Il silenzio è collusione, è negazione di uno spazio dove riconoscersi, è lo schianto del dolore.

Il silenzio a volte è come una scomparsa, lascia solo il vuoto.

Personalmente, io lancio un allarme etico:

il cambiamento e l’innovazione, che riguardino una persona o un gruppo di persone, richiedono la rottura del silenzio. Il silenzio è conservativo, quindi bisogna chiedersi cosa valga la pena di conservare e perché, considerato che spesso il silenzio ha sotto la negazione dell’evidenza e/o il cuscino inumidito di lacrime.

Il silenzio è la magica conclusione della parola, non può essere la negazione della stessa.

 

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