Dell’essere amata di non amore

Oggi propongo un pezzo che ha la vocazione del racconto breve. Con tanto di finale. Formalmente il tema è quello della violenza sulle donne, ma ritengo che possano esserci spunti che vanno al di là. Buona lettura.

E’ incredibile quante cose muoiono dentro di noi, lentamente.
Quando qualcosa suscita felicità e poi scompare, si eclissa anche un pezzo di noi stessi.
A tutto ci si abitua. Ci si abitua a guardarsi allo specchio. Ci si abitua a dire “sto bene”.
Oggi ho intenzione di dare voce al silenzio di ciò che si tace.
Magari sbaglio, forse nulla del racconto che mi accingo a narrare è veramente degno di nota. Solo che io non ce la faccio a restarmene in silenzio, mi perdo dietro a quei particolari che nessuno nota quasi mai, per cercare di capire eventi che di solito non interessano a nessuno e scorrono inosservati, mondi alieni che ad altri sembrano idiozie.
Dimentico un sacco di cose. Date, chiavi, capitali, i nomi di personaggi famosi. Dimentico persino i nomi delle strade. Ricordo bene invece quando qualcuno mi confida le proprie emozioni. Ho ben presente se qualcuno ha gli occhi tristi o se li ha pieni di gioia. In realtà credo -credo fermamente- che la “leggerezza” del vivere, il bisogno di molti di “non dar peso”, di pensare per sé, di accettare passivamente che “le cose stanno così e basta, pace!”, non faccia per me.
Io so che basta una parola, a volte un gesto, a far piangere una persona per notti intere. Io non lascio correre. E’ proprio questo che mi spaventa della notte: che sono di più le persone che piangono di quelle che fanno l’amore.
Quella nottata estiva non riuscivo ad addormentarmi.
Accanto a me, sul comodino, c’era il kit completo dell’insonne: riviste, libri, musica, carta e penna. Mentre leggevo per tenere a bada il cuore che correva, ho avvertito dei rumori insoliti. All’inizio ho creduto che fossero urla di rabbia; poi, prestando più attenzione, ho udito bene: erano dei singhiozzi. Abitavo al secondo piano e sotto la mia finestra c’era una piccola piazzetta. Ho aperto le persiane silenziosamente, quasi non volessi disturbare.
Ho sbirciato all’esterno e, guardandomi attorno, l’ho vista: era una ragazza, stava seduta sul marciapiede piangendo tragicamente. Senza che potessi farmi un’idea, lei balza in piedi di scatto. Si mette a correre e urlare: “Ti amo! Ti amo lo stesso!”. Lo sfogo era rivolto al vento, al nulla, al buio. Piangeva disperata e le parole erano quasi delirio: “Mi manchi da morire! Ti prego… mi manchi e non ce la faccio più… Senza di te la mia vita non ha alcun senso”. Di fronte a un dolore così manifestato ho sentito di essere inerme.
Pensai se fosse il caso di intervenire e parlarle. Che importanza avrebbero avuto le mie parole in quel momento? L’ho guardata allontanarsi, portando con sé la sua immensa tristezza. L’ho guardata e con le guance rigate da un filo di lacrima ho lasciato la finestra socchiusa, perché se fosse tornata avrei voluto sentirla, avrei voluto scendere e tentare di consolarla. Non ho più chiuso occhio rimuginando su quanto sia difficile anche solo ipotizzare di aiutare qualcun altro. Pensai: cosa mi ha frenato dal parlarle ? La risposta era chiara in me: mi aveva ricordato quanto male può fare passare dai fremiti dell’amore agli spasmi dell’abbandono.
La seconda volta che la vidi le avrei dato al massimo venticinque anni, sebbene velati da quelle delusioni che tolgono luce allo sguardo. L’avevo rincontrata proprio il mattino seguente dal parrucchiere. Aveva in mano un libro: “La principessa che credeva nelle favole” di Marcia Grad Powers. Poteva essere una ragazza qualsiasi con un libro qualsiasi, ma io avevo letto più volte quel libro e riconoscevo i segnali della persona ferita.
Le mani, perfettamente curate, le tremavano un po’. Aveva scelto un taglio radicale: da bionda con i capelli lunghi e ricci stava per diventare mora con i capelli corti e lisci. E’ noto che quando una donna cambia pettinatura così drasticamente, di solito è perché è sul punto di dare una svolta alla propria vita. Era magnifica, davvero… E quando, all’improvviso ha alzato lo sguardo, mi è balenato cosa potesse esserle successo: qualcuno aveva preso a sberle la sua autostima, si era impossessato dei suoi desideri per giocare a nascondino.
Quando arrivi al limite della sopportazione, delle forze, del sacrificio, ti si legge in faccia. Occhi brillanti e lucidissimi ma persi, lontani, assenti. Ed è lì che ho preso l’iniziativa, chiedendole del libro come se non lo conoscessi. La confidenza è scaturita con quella semplicità che il salone di parrucchiere facilita. Mi ha detto del taglio che stava per fare, delle unghie appena decorate, del weekend alle terme che aveva programmato. Mi ha detto tante cose senza dirmi niente, ma io sono certa di averla sentita sussurrare di aver paura. Paura di non farcela.
I segni trapassano il trucco. Curarsi le mani per non pensare alle mani violente di lui addosso a lei. Bellezza e dolore. Voglia di rialzarsi e di ritornare a volersi bene. All’uscita dal salone ho sperato che avesse un’amica capace di abbracciarla. Se fosse dipeso solo da me, l’avrei fatto. Ho visto un sentimento vivo pulsarle addosso. Ho pensato a quando lessi quel suo libro, a quando qualcuno giocò con i miei sentimenti, con la mia anima e col resto di me. Sperai che con i capelli più corti, le unghie più curate, la pelle più morbida avesse salvato una parte di sé.
Sbocciò l’amicizia tra noi, quella che ci si scambia persino i vestiti. Ma condividere tutto con lei, vederla come una sorella, sentire una forte intesa, non bastò a schiudere le porte della sua vita privata. Non si esponeva più di quel tanto. Sapevo dei rari contatti che intratteneva con i suoi genitori e di quanto a momenti alterni si sentisse sola.
Poi, un giorno, la incontrai completamente smarrita, e d’improvviso accadde l’imprevisto. La sua storia, come un libro narrato. Ed è così che compresi quanto ci aveva creduto, quanto di sé avesse investito. Le parole però non profumavano d’amore, ma odoravano di morte. Era stato il suo primo uomo, e il livido più grande era tatuato sul suo cuore. Era un amore di quelli senza futuro, senza gratifiche, senza autonomia né indipendenza.
Molti pensano che ci si innamora degli “stronzi”, ma non è così. Ci innamoriamo per come qualcuno ci fa sentire bene. Il problema è quando si trasforma in male. Un innamorato geloso ti fa sentire amata finché la gelosia non diventa un cappio. Un innamorato premuroso ti fa sentire al sicuro finché quelle premure non diventano catene.
Accade che il ricordo di ciò che ti fa sentire bene ti lasci in attesa di riviverlo. Come la dipendenza. Non è né stupidità né masochismo. Si chiama memoria. Un giorno lei mi chiese: “Come si fa a capire se è amore?”. E io mi inventai questa risposta: “Quando va tutto male, ma male-male, e non si sopporta più l’altro, e lo vorremmo picchiare, lo vorremmo far sparire, lo vorremmo cambiare, lo vorremmo mandare via, via, più lontano possibile, però non lo facciamo”. Non so perché le dissi questo ma ho la certezza che l’amore si misura nelle difficoltà generate dall’amore stesso.
Mi diceva: “Lui mi sorprende sempre, sa essere debole o forte, tenero o violento, rispettoso o denigratorio. Cambia idea su di me, a volte sono il suo tutto per poi dirmi che non valgo niente”. Io compresi che lei era stupefatta dal sentirsi al contempo amata così tanto e così poco. Che cosa avrei potuto consigliarle? La mia sensibilità coglieva tante cose, ma non aveva “risposte”. E’ così che l’ho ascoltata sempre, l’ho abbracciata spesso e poi qualche volta dicevo la mia.
Le chiesi cose tipo: “Non sei stanca di essere triste? Non hai voglia di sapere come ci si senta ad essere felici?”. Le proposi per la settimana successiva di venire con me a un corso di autodifesa. Lei dopo tanti dubbi e perplessità, decise di accettare. Speravo in cuor mio che si rimettesse in gioco, e che riscoprisse il suo valore. Viveva con lui da cinque anni, doveva far qualcosa.
Ma quel che successe tempo dopo fu veramente al di là della mia pur fervida immaginazione.
Era una sera qualunque, tipo quella in cui la vidi singhiozzare fuori dalla mia finestra.
Si sentiva l’esasperante suono della sirena, e caos fuori dalla loro abitazione.
Scrutando dalla mia finestrella, avvistai i carabinieri, l’ambulanza, persone e via-vai.
Vidi un corpo trasportato in tutta fretta.
E vidi lei accompagnata dai militari.
La vicenda fu presto nota, lei lo aveva colpito con un fendente, dopo essere stata nuovamente minacciata. E l’arma? Un affilato e lucente coltello da cucina.
La nostra amicizia nata per caso morì quella sera insieme al suo compagno.
Dentro di me la pensai assolta, libera, guarita, rinata. Anche innamorata, ma questa volta di una persona adeguata. Perché in cuor mio, lui aveva meritato di morire.
Oggi comprendo che la morte non è né giusta né giustizia. Situazioni assurde e dolorose, insicurezza e scarsa autostima. Non voler ammettere di aver sbagliato nello scegliere quella persona. La paura di rimanere soli. Chi non ha mai sognato di “fare giustizia”.
A volte sogno di essere un supereroe, che indossa la tuta e libera le persone in pericolo, pur sapendo che è una fantasia banale, un’assenza dalla realtà da fumetto Marvel. Spesso però prima di realizzare di aver sbagliato, e cercare di cambiare, si nega a se stessi la realtà, e questo non avviene in una serata al cinema bensì nella vita di tutti i giorni.
Perché molte persone non si accorgono di sceneggiare, dirigere e interpretare il tragico romanzo della propria vita. L’immaginazione trasfigura gli eventi, purtroppo però a volte rende liberi e altre volte schiavi. Anche se alcune persone cercano di controllarci, di annullarci, noi dobbiamo trovare la forza dentro, e dovremmo cercare di immaginare la nostra libertà. Il passo successivo è la realizzazione di questo pensiero.
La mia amica, quella vera, quella reale, ce l’ha fatta senza uccidere nessuno.
Eh sì, perché il finale di sangue me lo sono inventato.
Lei si è trovata un lavoro, si è staccata da lui, si è rivolta a uno Psicologo. Ha proseguito dritta per la sua strada. Attualmente lui le chiede di tornare insieme, ma credo (e spero) che lei non lo ascolterà, e continuerà la sua vita con maggiore consapevolezza.
Per come sono io, vorrei abbracciare coloro che sognano finalmente un bel giorno di vivere in dignità, libertà e amore per la vita, come merita ogni essere umano.
I particolari e i dettagli contano, non trascuriamoli.
Bisogna che si comprenda quanto sia terribile per chiunque subire una forza prevaricante, come quella fisica, e una devastante, come quella psicologica.

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