Come bolle di sapone

Sul tema del lutto è difficile scrivere qualcosa di nuovo, se non fosse per l’inesauribile originalità dei racconti e delle esperienze umane. Ho raccolto, in forma pseudo-definitoria (come in una specie di “dizionario del dolore”) una serie di istantanee scattate nell’universo di chi soffre per la perdita di qualcuno. Per chi ha la pazienza di seguire il teso ad un tratto emerge a sorpresa un breve racconto (in corsivo), che testimonia come un evento vissuto per caso, misto ad una chiave di lettura decisamente metaforica, possa costituire un ribaltamento della logica apparentemente a senso unico del lutto.

Soffrire il dolore della morte comporta una lenta elaborazione, che spesso ha come oggetto non tanto quanto fatto, bensì quanto non si è potuto fare e non si farà più.
Per ricominciare ad amare bisogna sorprendersi di ciò che accade.
Ecco all’improvviso: l’insolito terapeutico.

Immagina.
Ti svegli una mattina e davanti a te scorre, limpida, la prospettiva dei prossimi anni da vivere senza una persona per te importante.
Disperazione.
Voglia di poterle parlare, desiderio di un tocco o solo stare li a guardare. Ma non c’è più.
Vuoto.
Tutto ciò che era, la sua anima sensibile, quel sorriso saggio, il talento evidente, lo spirito generoso, la vivacità infantile, la sicurezza matura, tutto semplicemente andato.
Inconsolabile.
C’è chi se ne va senza volerlo e chi decide di farlo, solo per chi resta non c’è scelta.

Ricordi.
Ce lo si diceva che prima o poi sarebbe accaduto, e che il fiorire della primavera avrebbe lasciato il posto al silenzio dell’inverno.
Assenza.
In molti combattono con mostri in albergo dentro di sé, ed è una lotta continua e a volta impari.
Sopruso.
La vita dà e toglie senza giustizia, e resta l’inutile domanda: “perché”.
Destino.
Vacuità e pienezza di una parola a cui molto si ascrive ma di cui nessuno sa proprio nulla.

Assurdo.
Potere soverchiante, forza inflessibile, sorte insondabile, giustizia estranea.
Fatalità.
Come il dado restituisce numeri fortuiti, la fine della vita appare frutto di un processo immotivato, illogico, inspiegabile e imprevedibile.
Forza.
Trovare energia nelle spiegazioni inutili, provare a darsene una ragione.
Dolore.
Serve tempo, per accettare quel che pur si capisce o per capire ciò che non si accetta.

Tracce.
Scrivere su un diario per non tener dentro, pensare in silenzio per urlare scrivendo.
Insopportabile.
Il silenzio è troppo, e la domanda “perché” è sempre più muta, sempre più assordante.
Ossessione.
La ricerca del senso diventa vitale, e nulla come la spiritualità offre sponde e approdi.
Azzardo.
L’espiazione del peccato come significato possibile per la negata immortalità.

Amore.
L’affetto che si prova per chi è malato ti mette alla prova, tra giorni di speranza e altri di sconforto.
Contagio.
Il fatto è che voler bene a chi soffre impone di far propria quella sofferenza, di cui nel bene e nel male ti resta traccia per sempre.
Continuare.
Chi resta deve affrontare il percorso. Come su una strada sassosa, come col vento in faccia, come con la pioggia negli occhi.
Respirare.
Dentro chi resta lo stupore di ciò che prosegue: tutto continua dalle bizze del tempo, alla gente che parla, ai treni che partono, al telefono che squilla.

Sorridere.
A tratti ritorna la voglia di emozioni positive.
Scrivere.
La consolazione del parlare attraverso la penna a chi non c’è, a chi non potrà mai leggere.
Fiori.
Accanto, sul tavolo, un mazzo di rose, perché il colore ritrovi spazio.
Camminare.
Muovere le gambe ha i suoi benefici per chi rimane.

Tempo.
Commozione e ricordo danno misura del tempo trascorso da quando non ci si vede, e del tempo infinito del non rivedersi mai più.
Oblio.
Voler rivedere quell’espressione buffa, ma accorgersi di non ricordarla. Voler risentire quella frase, ma scoprire di non saper rievocare la voce.
Persistenza.
Scrivere ancora a distanza di tempo, per trattenere i pensieri che sfuggono.
Vergogna.
Essere felice di fare qualcosa, e sentirne il disagio.

Una domenica, nella piazza del paese, ho incontrato un fachiro.
Circa venticinque anni, di corporatura robusta, con un filo di barba sul volto e tanti peli sul petto, un paio di pantaloni di velluto rossi.
La prima volta che l’ho visto era seduto su delle matite appuntite, una distesa infinita di matite con la punta rivolta verso la sua pelle. E lui se ne stava lì seduto tranquillo a dire a tutti “tra poco inizia lo spettacolo!”. Così ho camminato, in mezzo alla gente distratta e indifferente, senza una meta per un po’, per poi tornare da lui.
Con sé aveva soltanto un piccolo tappeto pieno di buchi e di bottiglie di vetro rotte, dei chiodi, delle fiaccole, del liquido e un accendino per accendere il fuoco. Tra un numero e un altro (mangiafuoco – camminare sui vetri rotti – stendersi sui chiodi) ha raccontato, a me e ai numerosi spettatori presenti, gli ultimi sette anni della sua vita.

Ci ha detto che un giorno, dopo aver perso la persona per lui fondamentale, ha deciso che la strada era il suo sogno e che in una società fatta di numeri lui voleva essere soltanto un’emozione.
Questa donna era sua mamma, morta suicida a causa di una logorante depressione.
Poi, ha aggiunto:
“Non mi sono mai arreso, non le ho mai voltato le spalle, non me la sono mai presa con lei, non l’ho mai abbandonata, finché non è stata lei ad andarsene, perché non poteva più continuare la sua battaglia”.

Era uno di quei giorni in cui avevo bisogno di aggrapparmi a qualcosa, così ho trovato appiglio all’inattesa gioia del fachiro quando, alla fine dello spettacolo, ha racimolato abbastanza soldi per aggiustare il camper. Ci ha raccontato che vive in un camper e che ogni giorno, per otto ore, si allena per fare i suoi spettacoli. L’ho sentito ripetere insistentemente “si riparte, si riparte, si riparte”. Nella sua piccola follia, il fachiro ha raccontato che il suo tesoro era nella scatola. Dentro, la boccetta di sapone per fare le bolle.
“Non ridete mi piacciono veramente”.
Ma io più che la risata avevo in me la commozione per la semplice ricetta in fronte ai miei occhi.

Per me quel fachiro ha trasmesso la sua filosofia attraverso le bolle di sapone: quelle che resistono per un sacco di tempo, che quasi quasi ti stupisci e pensi “forse questa è talmente leggera che non si rompe” anche se lo sai che prima o poi si rompono tutte. E la vita è altrettanto fragile come una bolla di sapone, delicata come un soffio di vento.

Invidia.
Voler essere come chi si sente libero, in grado di usare la preziosità del tempo.
Bisogno.
Scoprire che la soluzione all’assenza è la presenza, colmare il vuoto interiore.
Rimedio.
Trovare la propria scatola del tesoro.
Coraggio.
Guardare avanti non lasciando che i ricordi e i rimpianti prendano il posto dei progetti e dei desideri.

Morte.
Non ti permetterò di essermi nemica, di demotivarmi col tuo vizio di portarti via le persone.
Tracci paradossali percorsi di felicità.
Risolvi a costo del tuo dolore l’infelicità del vivere.
Tu sei necessaria come l’aria, come l’acqua. Sei essenziale ed efficacissima.

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