D’INVIDIA TI PENSAI

L’invidia è, come noto, uno dei sette “vizi capitali” e Dante riserva agli “invidiosi” un posto nella seconda cornice del Purgatorio (canto XIII). Il contrappasso dantesco è costituito da stimoli di carità e virtù proposti ad anime cieche, con le palpebre cucite dal fil di ferro, come d’altronde suggerisce l’etimo della parola invidia (in-vedere = guardare contro, con ostilità). Malevoli verso il prossimo, il Poeta li immagina come mendicanti, costretti a sorreggersi l’un l’altro, obbligati nella loro condanna al sostegno reciproco caritatevole.
L’apparenza inganna, i sensi ingannano. Esistono persone che sembrano vicine e invece coltivano veleno relazionale. Incontriamo tante maschere, e pochi volti. Tutti in fondo cerchiamo di essere i migliori, fosse anche per amor proprio. Nulla di male in questo, se non fosse per coloro che coltivano un profondo “senso d’inferiorità”, che costringe a una compensazione. Anche i più timidi e i più riservati lo fanno, pur non dando nell’occhio, e comunque ci sperano. “Speranza” di cosa? Di essere notati, di essere capiti, di poter dimostrare quello che sentono (o sognano) di essere. E quando non riescono? Ecco la gioia che nasce dall’infelicità altrui. Non potendo “essere” e/o “avere” nasce il piacere per l’altrui “assenza” e/o “perdita”. L’infame risultato per l’invidioso è l’ulteriore impoverimento di sé, ma vaglielo a spiegare…
Per gli amanti dell’astrologia l’invidia corrisponde al pianeta Mercurio. Vorrà dire qualcosa ? Mah, come da tutte le pseudoscienze si può solo trarne spunti metaforici. Mercurio è il “reggente” del segno dei Gemelli: il rispecchio nell’altro. Una conseguenza pratica e utile è questa: il pettegolezzo (tipico mercuriale per gli astrologi) è, in effetti, una caratteristica psicologica che si associa agli invidiosi. La psicanalisi rimanda all’atavica competizione tra fratelli -tipica infantile- pertanto il concetto di “rivalità” affianca quello d’invidia. Sempre l’analisi può evidenziare un infantile bisogno di “riconoscimento” da parte di un genitore, che è spesso alla base delle sensazioni di non-essere-all’altezza che accompagnano le sindromi da bassa autostima nell’adulto.
Uno sconforto al femminile: pur sentendomi bella non sarò mai la più bella.
Uno sconforto al maschile: pur dando il meglio di me, non sarò mai “il migliore” in qualcosa.
Volendo, i due sconforti sono intercambiabili tra i generi.
Proviamo a capire di più dalle precise parole di una ragazza.
E’ demotivante ! Per molto tempo questo pensiero mi ha come immobilizzata in una sorta di comoda illusione: pensavo di poter fare a meno di brillare. Seriamente. Pensavo: che importa guardarsi allo specchio? Leggere? Studiare? Scrivere? Ridere? Che importa, se non lasci il segno? Che importa indossare quel vestito colorato che mi piace tanto se poi nessuno lo nota? Che importa, pensavo, lasciar allungare i miei capelli se non saranno mai “i più lunghi”. Credo sia una sorta di complesso d’inferiorità, o qualcosa del genere. Credo siano pensieri sciocchi e piuttosto egocentrici: perché mai io, proprio io, dovrei essere di più di qualcun altro? Pensavo così e non so come mai i miei capelli hanno smesso di essere luminosi, mi sono spuntate le occhiaie e ho smesso di ricordare i sogni che facevo di notte.
Non vorrei dare la colpa a nessuno per questo, a nessuno se non a me stessa, ma vorrei poter scrivere a tutte le donne che io ci ho provato a boicottarmi, ma non ci sono riuscita. Vorrei scrivere a tutte quelle che “sei troppo magra”, “sei troppo dolce”, “sei troppo timida”, “sei troppo scollata”, “sei troppo imbranata”, che per molti anni ho guardato i fiori pensando di non meritare che qualcuno me ne regalasse uno, che per molti anni ho ascoltato le canzoni alla radio pensando di non meritare che qualcuno me ne dedicasse una.
Il pensiero che emerge da queste parole è interessante perché traccia il confine tra le premesse che conducono a una personalità invidiosa e rivaleggiante, e una che invece diventa capace di elaborare il processo verso una direzione che è il contrario di un vizio, e diventa una virtù. E’ importante perché il cosiddetto male di Caino (che uccide Abele pensandolo il preferito del Padre) può diventare una grandissima forza nell’ammirazione verso qualcuno in cui vediamo doti positive e funzionanti. In termini di analisi psicologica, è la funzione predominante in adolescenza, quando il confronto con persone che stimiamo misto al pensiero progettuale e onnipotente tipico dell’età portano, nel migliore dei casi, all’affermazione del proprio sé distinto e in qualche maniera originale. Torniamo alle parole della ragazza.
Ho dato troppa importanza alle parole altrui, ho dato troppo ascolto a tutte e ancora adesso, scivolo nell’errore di mettere i miei desideri nelle mani degli altri. Ma non cado. Scivolo, ma riesco sempre ad aggrapparmi a qualcosa, ormai. Mi aggrappo alla certezza che ognuno di noi, pur non essendo “il migliore”, possa almeno cercare di essere al proprio meglio: forse non avrò un fisico perfetto, ma ho un paio di occhi di tutto rispetto. Forse non avrò una bella voce, ma so raccontare. Forse non saprò correre, ma di camminare non mi stanco mai. E anche i giorni in cui faccio di tutto trovando forze che non credevo di avere e quelli in cui non riesco a fare niente, sempre, merito un fiore. Ma che dico: tre fiori, dieci fiori. Tutti i fiori del mondo.
Avere più autostima, credere in se stessi, cercare di vedere la parte costruttiva in ogni cosa, questo fa la differenza. Non importa ciò che si ha ma quello che si è. A volte però, all’interno dell’animo umano s’insinuano la cattiveria, la rivalità e l’invidia. Cambiano le forme e i colori ma l’atteggiamento mentale permane ancora ed esiste da tempi storici. Passano gli anni, variano le mode, le acconciature, anche se certi sentimenti e fenomeni rimangono tali.
Ma come riconoscere l’invidioso? Non facile, né tantomeno basta rilevare una persona pettegola per trarne un’immediata “diagnosi”. In generale gli spunti che si possono fornire sono i seguenti (nessuno di per sé sufficiente a trarre conclusioni):
è una persona a cui dà fastidio l’ “ordinarietà”, ha un bisogno particolare di essere “speciale” e/o di circondarsi di persone “speciali” (con cui rivaleggiare);
cercherà di distinguersi fin dall’abbigliamento, che deve avere tratti di eccentricità;
ha una più o meno spiccata vocazione “artistica”;
il suo rischio psicologico è nella malinconia o nel peggiore dei casi nella depressione;
i suoi ragionamenti sono al passato o al futuro, ma mancano di “presente”
Leggiamo con attenzione queste riflessioni della ragazza.
L’invidia e la rivalità appartengono a coloro che screditano con tutte le loro forze i costruttivi e i creativi, e continuano fino a quando comprenderanno che nella loro esistenza non hanno mai creato nulla, per mancanza di stima di sé.
> Vediamo molto ben allineato un pensiero che proietta all’esterno un proprio mondo interiore ben conosciuto.
Mi interesso delle rivalità e invidie femminili, un tema attualissimo e poco discusso in realtà. Su questo argomento, sentito e sofferto, cala una sorta di silenzio omertoso. Immaginavo di imbattermi in fiumi d’inchiostro. Come mai? Spesso i rapporti tra donne sono così deteriorati e faticosi, da compromettere sia la vita lavorativa sia quella personale. D’altronde la reticenza non è una novità. Se si è fortunate, si possono stringere legami preziosi. Purtroppo però la competizione al femminile appare più aspra e aggressiva rispetto a quella tra uomini.
> La testimonianza riprende l’idea, molto diffusa, che il cervello femminile sia più invidioso. Io non credo che sia così, ritengo invece che sia ancora pervasivo il tratto psicologico di base della carenza di autostima nelle donne. Non penso che questo sia il frutto di una variabile morfologica del cervello femminile (la carenza di autostima abbonda anche nel sesso maschile), ritengo invece che i condizionamenti sociali mantengono ancora diffuse differenze di genere non ascrivibili al sesso.
Le amicizie tra donne finiscono con le coltellate. Date sempre alle spalle però. Nella vita ognuna di noi le incontri dovunque, dall’asilo alla scuola elementare, dalle medie alle superiori, dall’università alla vita lavorativa, dal ginecologo, in palestra, al gerontocomio. Io di amiche invidiose ne ho avute tante: quelle depresse, quelle euforiche, quelle presuntuose, quelle permalose e quelle visionarie. Unico comun denominatore: erano vuote dentro.
> Trovo molto divertente la classificazione in cinque “stili” d’invidiose, perché sarebbe utile raccogliere altre esperienze in questo senso. Sintetico e impietoso l’elemento comune, un “vuoto interiore” che dà l’idea di doversi riempire con qualcosa di esterno da sé.
Da tutte ti aspetti qualche bastardata, ma non da un parente stretto, magari un cugino, magari di primo grado, o da una sorella acquisita. E invece accade pure questo. Quando non si hanno sorelle più o meno coetanee è facile che si instaurino rapporti molto stretti tra cugine. Ma si tratta di un’amicizia che spesso ha come caratteristica uno sbirciarsi durante la crescita, un fare confronti, un voler primeggiare. Per non dire dei rapporti tra le madri delle cugine, spesso sorelle e rivali tra loro. Ognuno deve fare proprie queste esperienze di crescita. Percorso di crescita che dura per sempre, evidentemente, perché si possono scoprire tracce di amiche false fino alla tarda età.
> Il tema della rivalità e dell’invidia come elemento familiare è di estremo interesse, sia perché rappresenta il terreno fertile delle condizioni favorenti, sia perché rinforza quel campo di battaglia che porta poi a cercare rapporti “veri” fuori dalla famiglia.
Nella maggior parte dei casi, la sorellanza tra due donne facenti parte dello stesso gruppo è un’utopia, raggiungibile solo nel caso ce ne sia una più brutta, meno appariscente e soprattutto facilmente assoggettabile. I bersagli più gettonati invece, sono le ragazze brillanti, in grado di attirare le attenzioni altrui. Il bersaglio perfetto, insomma, per colei che riesce a scovare la sua preda anche a km di distanza, a raggirarla con le sue moine, i suoi dolci modi di fare, prima di lanciare la stoccata finale.
> La nostra testimone traccia con queste parole il profilo della “preda” d’invidia, in modo magari ingenuo ma con una certa precisione.
L’azione alle spalle dell’invidiosa si esprime con due strumenti potenti: lo scherno e la maldicenza. A dimostrazione di quanto l’apparenza inganni, spesso le buone amiche si trovano sotto strati di finta aggressività e ritrosia. La rivale invece ti si presenta come l’amica del cuore caduta dal cielo. E’ il linguaggio del corpo che svela la donna invidiosa. La riconosci così, con un sorriso perennemente stampato sulla faccia, studiato allo specchio per vedere quale fosse il profilo migliore da mostrare al mondo. Questa persona, quando ha il broncio, ti affascina persino da tanto è affettato. La persona non competitiva se felice, sorride, se triste, si acciglia. La faccia autentica corrisponde all’emozione che esprime.
> Nelle parole della ragazza emerge una propensione a costruire la propria esperienza “difensiva” attraverso la lettura della comunicazione non verbale. In questo esprime tra le righe un concetto interessante, cioè che le “vittime” dell’invidia sono preferibilmente persone ingenue, che danno una lettura superficiale ai rapporti e alle parole. Ne troviamo conferma nel seguito, che sposta gradualmente l’attenzione verso l’ambiente di lavoro.
Di solito è così che la vipera riesce a insinuarsi nella tua vita: capisce qual è il tuo punto debole e facendo perno su quello, cerca di piegarti al suo volere. Come fa? Sceglie tra tutte quella indipendente ma isolata dal gruppo femminile, che preferisce parlare con i maschi per pragmatismo o perché con le femmine si annoia, quella dal sorriso cristallino. Forte ma ingenua, perché fiduciosa. Ecco che scatta la rivalità e l’invidia. Nel giro di breve tempo la strategia è di trasformarla in “appestata”, “isolata”, “maschiaccio”, e con lei non bisogna parlare. Perché? Perché l’invidiosa ti vuol portar via il risultato del tuo modo di essere, senza esclusioni di colpi.
> Rilevo l’elemento atavico della figura del serpente, che non perde nemmeno nelle parole di una giovane d’oggi il suo tradizionale ruolo diabolico.
Nella parte successiva, che lascio in toto alle parole della giovane impiegata, troviamo in pieno l’ambiente lavorativo.
I residui di sofferenza e dispiacere, causati da colei che credevo mi fosse veramente amica, erano come una scheggia di vetro nel cuore, dolorosa a ogni battito.
Mi abituo a tutto: con il tempo ho iniziato a pensare di essere “forte”, che è una parola strana se la immagino associata a me. In effetti, non sono fragile direi piuttosto delicata. Non riesco ad aprire i barattoli di marmellata e quando cammino inciampo spesso. Però sono una di cui ti puoi fidare. Peccato che questa caratteristica m’imponga di difendermi da me stessa, prima che dagli altri.
Ho ricevuto anch’io la mia bella dose di buon senso da parte di chi mi vuole bene: “Non puoi pensare che sul lavoro siano tutti amici, un conto è l’amicizia, un conto è il lavoro”. Ma io, dura come i sassi, ho sempre portato avanti il mio pensiero: cosa c’è di più bello che lavorare in armonia con persone amiche? Non sarebbe fantastico trovare anche in ambiente professionale una persona che ti aiuta, ti ascolta, ti comprende e ti sostiene? Ma guarda che fortuna… il destino ci ha fatto incontrare. Tra me e lei si era formata una sorta di sorellanza, suggellata dalla costante e giornaliera frequentazione in ufficio.
Conosceva tutto di me! Tutto ok, tutto fantastico, salvo scoprire che, “causa carriera”, potevo essere tranquillamente data in pasto ai capi. Come ci è riuscita? L’invidiosa si mostra talmente brava che t’incastra sia sul piano umano sia su quello lavorativo, e quando la smascheri ormai il danno è compiuto: fregata al 100%. Lei casca nella tua vita, riempiendoti di un’amicizia avvolgente. Come tutte le storie del cuore, all’inizio parti a mille, perché lei è l’amica che hai sempre cercato. Presente, affettuosa, propositiva. Con il tempo però inizi a percepire qualcosa di sospetto: è così insistente, invadente e stressante. Ti frega sul dettaglio, quando si lavora in gruppo parla al plurale quando il lavoro svolto insieme è un successo, e se ne esce con un “ma come hai potuto sbagliare in questo modo” quando ci sono dei problemi.
L’amica invidiosa capisce i tuoi punti deboli, riesce ad ammaliarti e a sfruttare al massimo le tue potenzialità spacciandole per sue: rivendendo le tue conoscenze come proprie, e riuscendo a trasformarti in pedina nel suo gioco. Io, quella cui basta uno sguardo per farmi tremare le gambe, mi ritrovo immobile. Avrei tante cose da dirle. Mi viene quella voglia di piangere pazzesca, che proprio non la riesci a fermare, che non c’è verso di spiaccicare una sola parola, che non esce più niente. Tutto lasciato dentro, ingoiato e naufragato nel silenzio di quelle stupide lacrime. Si può essere fatti peggio di così?
La peggior cosa è ricascarci. Lei è abile e si scusa sentitamente. Ma sì, perché non darle un’altra opportunità? Lei insiste per frequentarti fuori dall’ambiente lavorativo, ti dice che ti vuole bene e le stai simpatica. E curioso il mix di gentilezze e faccia tosta: generano una bomba a orologeria. Con delicatezza, ma come un picchio sulle spalle, lei mi faceva sempre notare quando sbagliavo e soprattutto nei nostri discorsi doveva sempre avere ragione lei.
La goccia che fece tracimare il fiume in piena non tardò ad arrivare. Gliene avevo fatte passare talmente tante di scempiaggini, che con me spadroneggiava, ben consapevole della fiducia che avevo riposto in lei. Il sorriso stava sulle labbra, ma intanto dentro di me cresceva una consapevolezza sempre maggiore. Copiò il mio lavoro spacciandolo per proprio. A questo punto, le opzioni che mi si prospettavano erano numerose, ma confesso che in tutta onestà la mia prima reazione è stata quella di dargliele di santa ragione. Poi, ho scelto di parlarle, d’altronde t’insegnano che il dialogo è alla base di ogni rapporto, e così ho fatto. Nel mio caso, per fortuna, è stata in seguito presa in castagna dal capo e si è incastrata con le sue mani.
Questo tipo di persone esercita la propria aggressività in modo indiretto, guardandoti come se fossi invisibile. Lo scopo della loro azione è distruggere la posizione dell’altra persona, il suo diritto di esistere. Sembra che le rivalità sul lavoro nascano frequentemente dalla distribuzione dei favori da parte di chi detiene il potere. Il più delle volte sono sotterranee, salvo poi esplodere dopo aver covato a lungo sotto la cenere.
E’ fondamentale imparare a “riconoscere” le persone con cui ci esponiamo. L’invidia si macera nel proprio risentimento, cercando di nascondere l’insicurezza sostanziale dietro una corazza di spavalderia e orgoglio. Bisogna sottrarsi dal rivaleggiare inconsapevolmente perché è un comportamento autolesionista, purtroppo reiterato nel tempo. Per difendersi dall’invidia puoi anche non aspettarti più niente da nessuno, ma per chi ha un cuore quest’aridità è insostenibile. La via d’uscita a tutto questo è la seguente: rifiutare il ricatto sociale.
E se essere se stessi ci rende persone “invidiabili” agli occhi di qualcuno, allora lasciamo che questo sia.

When I find myself in times of trouble
Mother Mary comes to me
Speaking word of wisdom, let it be
And in my hour of darkness
She is standing right in front of me
Speaking words of wisdom, let it be
(1970, McCartney-Lennon, The Beatles)

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